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C’è una guerra che non si combatte con armi convenzionali. Non fa notizia nei telegiornali, non riempie le prime pagine, eppure continua a colpire, ogni giorno, invisibile ma reale. È la guerra cibernetica. E in queste settimane, è tornata a farsi sentire forte.
Dopo i raid aerei condotti dagli Stati Uniti e da Israele su obiettivi iraniani e di milizie filo-iraniane in Medio Oriente, l’onda lunga è arrivata anche nel cyberspazio. Il Department of Homeland Security americano ha lanciato l’allerta: gruppi di attivisti e hacker legati all’Iran stanno colpendo infrastrutture digitali statunitensi – ma non solo – con attacchi DDoS, campagne di disinformazione, e tecniche di social engineering sempre più raffinate.
Il bersaglio? Non solo governi o eserciti. Ma anche aziende, ospedali, università, istituzioni civili. Chiunque abbia un’infrastruttura esposta online.
La cyberwar moderna non segue più la logica della mira precisa. Non è un cecchino: è più simile a una tempesta che colpisce tutto ciò che trova sulla sua traiettoria.
È per questo che le aziende europee – e italiane – non possono più permettersi di considerare certe notizie come qualcosa di lontano o irrilevante.
Molte utilizzano software, cloud o infrastrutture fornite da vendor americani.
Molte si appoggiano a tool esterni poco tracciabili.
E moltissime hanno vulnerabilità note solo a chi sa dove guardare.
Il rischio, oggi, non è solo quello del danno diretto (un sito che non funziona, un sistema fuori uso). È il danno reputazionale. Il blocco di operazioni critiche. La perdita di fiducia da parte di clienti e partner.
E non è necessario essere una grande azienda per diventare un target. Anzi: proprio le imprese medie e meno strutturate sono spesso le più colpite, perché più facili da violare e meno preparate a reagire.
Non stiamo parlando di ragazzini in cerca di attenzione.
Dietro le minacce odierne ci sono gruppi organizzati, spesso ben finanziati, che usano tecniche da manuale militare.
Alcuni attaccano per motivi ideologici, altri per destabilizzare.
Molti semplicemente cercano visibilità o rivendicano messaggi politici.
E quando non riescono a colpire direttamente i governi, colpiscono gli ecosistemi digitali che li circondano.
In questi giorni, i team di sicurezza di centinaia di aziende nel mondo stanno ricevendo ondate di richieste anomale, tentativi di login da paesi insoliti, picchi di traffico sospetto.
Non è un caso. È un test. Ed è già iniziato.
Parlare di prevenzione è facile. Ma quali sono gli strumenti concreti?
Per prima cosa, serve una mappatura completa della propria esposizione: sapere quali sono i sistemi critici, dove sono ospitati, chi li gestisce.
Poi, è essenziale avere una strategia di risposta: come reagire in caso di attacco, chi contattare, cosa comunicare.
E infine – ma forse soprattutto – serve testare. Testare per davvero, con scenari realistici, con persone che pensano come un attaccante. Perché il punto non è “se” verrai attaccato.
Il punto è: ti accorgerai in tempo? E saprai cosa fare?
In UNGUESS uniamo le competenze del nostro team interno di ethical hacker con la forza di una community esterna di hacker selezionata, per offrire valutazioni di sicurezza complete ed efficaci.
Simuliamo scenari realistici, attacchi mirati, tentativi di intrusione su misura.
Non per creare panico, ma per evitare che tu debba gestirlo all’improvviso.
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